Caporalato: il caso Uber Italy S.r.l.

Caporalato: il caso Uber Italy S.r.l.

Il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro

Il reato di caporalato (più precisamente “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”) è previsto nel nostro Ordinamento dall’art. 603 bis c.p. che punisce sia il caporale (intermediario illecito), sia il datore di lavoro che impiega manodopera in condizioni di sfruttamento.

Questo reato è incluso nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti ex D.lgs. 231/2001 che prevede per le imprese l’adozione di modelli organizzativi idonei a prevenirne la commissione.

La norma sanziona, quindi, due condotte:

  • il reclutamento illecito di lavoratori da destinare a lavori in condizioni di sfruttamento;
  • l’utilizzo di manodopera in stato di sfruttamento da parte del datore di lavoro o tramite intermediari.

La legge distingue tra sfruttamento mediante violenza e sfruttamento che prescinde da condotte violente, ma che si manifesta attraverso specifici indici di abuso, come retribuzioni inadeguate, violazioni degli orari di lavoro e condizioni di sicurezza insufficienti.

Il caso Uber Eats in Italia

Il fenomeno del caporalato, che riguarda prevalentemente il reclutamento illecito di manodopera in stato di bisogno, non si limita più al solo settore agricolo, tradizionale ambito d’azione dei caporali, ma interessa oggi anche altri comparti lavorativi (cura familiare, commercio, servizi).
Una nuova frontiera del caporalato si affaccia con l’avvento dell’era digitale: è il caso delle piattaforme on line che effettuano consegne di cibo a domicilio.

Il caso Uber Eats in Italia ha sollevato interrogativi cruciali sulla responsabilità delle imprese nell’ambito dell’economia delle piattaforme, portando in primo piano il ruolo del D.lgs. 231/2001. In questa vicenda si è riscontrata un’intermediazione illecita nella gestione dei fattorini da parte di società di logistica, con violazioni della normativa sulla sicurezza e situazioni di sfruttamento lavorativo.

Nel maggio 2020, la Procura di Milano ha emesso un decreto di sequestro preventivo nei confronti di Uber Italy S.r.l., per oltre 600.000 euro, somma ritenuta profitto illecito del reato. La società è stata accusata di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603 bis c.p.) tramite l’utilizzo di società terze, impiegate per reclutare e gestire centinaia di rider in condizioni di sfruttamento.

Secondo gli atti dell’inchiesta, i rider venivano pagati meno di 3 euro netti all’ora, non godevano di alcuna tutela previdenziale o assicurativa, subivano pressioni costanti, sospensioni arbitrarie e sanzioni. Erano selezionati e gestiti da soggetti che agivano come veri e propri caporali digitali.

Uber Italy S.r.l., pur non essendo datore di lavoro diretto, traeva vantaggio economico dallo schema di sfruttamento. La Procura ha contestato il reato presupposto ex art. 603 bis c.p., sostenendo che il sistema ideato dalle società “intermediarie” fosse funzionale al modello di business di Uber, la quale esercitava di fatto un controllo diretto sulle modalità di lavoro, tramite App e tracciamento GPS dei rider. È emerso inoltre che l’ente non aveva adottato modelli organizzativi e di controllo idonei a prevenire il reato.

Sulla base di quanto precede la società è stata sottoposta alla misura dell’amministrazione giudiziaria con la quale è stata costretta ad adeguare la propria politica alla normativa. La società ha, quindi, provveduto a dotarsi di un modello organizzativo e a nominare un organismo di vigilanza. Inoltre, in collaborazione con l’amministrazione giudiziaria, ha predisposto un sistema strutturato e organico di prevenzione, dissuasione e controllo per la riduzione del rischio di commissione dei reati mediante l’individuazione delle attività sensibili.

Il caso Uber è stato uno dei primi a traslare il concetto di caporalato nel contesto digitale, estendendo l’applicazione del D.lgs. 231/2001 al mondo della gig economy.

Il caso ha già spinto alcune aziende del settore a rivedere i propri Modelli 231, includendo valutazioni di rischio relative alla gestione della forza lavoro esternalizzata, procedure di due diligence nei contratti con fornitori e subappaltatori, nonché audit interni sull’uso delle tecnologie e sull’equità dei compensi.

Il caporalato digitale non rappresenta un fenomeno marginale, ma è indicativo di un mercato del lavoro in profonda trasformazione. Il caso Uber costituisce un monito per tutte le imprese: delegare non equivale a deresponsabilizzarsi.

Come l’impresa può tutelarsi

Il reato di caporalato, come già evidenziato, rientra tra quelli previsti dal D.lgs. n. 231/2001.
Di conseguenza, le imprese devono adottare modelli organizzativi efficaci, che includano misure idonee a prevenire tali condotte, monitorando la conformità alle normative in materia di diritti dei lavoratori e sicurezza sul lavoro.

L’adozione di un modello organizzativo conforme all’art. 6 del D.lgs. 231/2001 può escludere la responsabilità dell’ente, purché questo dimostri di aver predisposto misure preventive adeguate e che l’eventuale reato sia stato commesso eludendo fraudolentemente tali misure.

Le imprese devono inserire nei propri modelli organizzativi protocolli specifici per prevenire il caporalato, con particolare attenzione alla selezione e assunzione del personale, alla gestione dei fornitori e alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Devono inoltre implementare controlli per evitare che l’interesse economico comprometta le condizioni di lavoro. Una due diligence accurata nei confronti dei fornitori è fondamentale per evitare il coinvolgimento in attività illecite.

Il caso Uber ha evidenziato l’importanza di adottare modelli organizzativi efficaci anche in contesti digitali e non tradizionali, come quello delle piattaforme di delivery.

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